Puoi leggere questo articolo anche in inglese!
Cinque mesi fa la capitale di Haiti, Port-au-Prince, è stata presa d’assalto in un attacco coordinato perpetrato da più di 300 gang locali, le quali superavano le forze dell’ordine in numero e qualità degli armamenti.

Gli attacchi del 29 Febbraio hanno avuto luogo mentre il primo ministro ad interim, Henry, era a Nairobi, le gang hanno dunque bloccato con la forza i voli da e per l’aeroporto Louverture, impedendogli di tornare. Dopo aver vanamente tentato di rimpatriare passando dagli stati caraibici vicini, Henry è stato costretto a dimettersi dal suo incarico governativo il 12 Marzo. L’anno scorso Henry aveva già chiesto alle nazioni unite un intervento armato a guida Kenyota, al fine di stabilizzare la situazione nel paese quando la violenza delle gang iniziò a diventare insostenibile. Molti notiziari europei ci hanno raccontato la vicenda fino a questo punto, ciò è avvenuto per diverse ragioni, un ordine di priorità del tutto ragionevole, eppure proprio ora che la situazione si è evoluta è giusto domandarsi cosa ne sarà della popolazione haitiana quando la crisi di sicurezza si trasformerà in una devastante crisi umanitaria (a dirla tutta già in corso). Prima di guardare al futuro faremo ora un passo indietro, narrare l’intera sinossi della storia haitiana non è lo scopo di questo articolo, tuttavia è necessario avere alcuni concetti chiari prima di continuare.
Breve introduzione storica
Fondata all’inizio dell’800, in seguito ad una sanguinolenta ribellione ai danni dei coloni napoleonici, Haiti ha subito immediatamente un isolamento commerciale sia per mano degli ex-occupanti francesi che dalle altre colonie vicine, non interessate ad avere rapporti diplomatici con uno stato di ex-schiavi. Oltre all’isolamento, un altro dei fattori che ha fin da subito messo l’economia haitiana in difficoltà è stato senza dubbio l’enorme debito che la Francia presentò loro come riparazioni di guerra. Nel 1915 gli USA hanno occupato Haiti militarmente, iniziando la loro personale storia di sfruttamento e depauperamento delle risorse locali, sopprimendo qualsiasi tipo di resistenza. A seguito del ritiro statunitense nel 1934, e l’estinzione del debito con la Francia nel 1947, una piaga interna si insediò nel paese, ossia la dittatura del famigerato “Papa Doc” nel ’57, e a seguire il regime del figlio, nel ’71. Gli anni 70/80 ad Haiti sono stati caratterizzati da un mix di forti limitazioni all’esportazione e leggi che favorivano lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo, ascrivibile al fenomeno tipico del terzo mondo: La messa a punto di “sweatshops” (modalitĂ tra l’altro incentivata dalle molteplici economic-free-zones presenti nel nord del paese, persino nel nostro secolo) in cui lo stipendio medio era di 2,65 dollari al giorno. Due tendenze sono da tenere a mente relativamente a questo periodo: l’emigrazione di massa, grazie alla quale negli anni ’80 vi erano circa 600000 haitiani sparsi per il mondo, e lo smembramento dell’esercito da parte del regime di turno. Passata la dittatura nel 1991, sotto la guida del primo presidente democraticamente eletto, Aristide, il paese sembrò finalmente respirare, sia economicamente che politicamente. Tuttavia anche questa epifania era destinata a concludersi, quando a soli 7 mesi dall’elezione un golpe mise in fuga Aristide ponendo al governo una giunta militare. Aristide tornò al potere circa 4 anni dopo, grazie al supporto armato degli Stati Uniti. Durante gli anni della giunta militare l’emigrazione ebbe un picco, e nel ’94 circa 50000 rifugiati erano tenuti a Guantanamo Bay, in attesa del rimpatrio; Aristide fu costretto ad assicurarsi che tutto questo non si sarebbe ripetuto, e così smembrò nuovamente l’esercito, i cui uomini addestrati presero posto nelle gang locali, dando così inizio alla loro storia di veri e propri attori politici. Nel 2004, quelle stesse gang locali si diedero battaglia tra chi voleva nuovamente far dimettere Aristide (fazione presumibilmente supportata da USA e Francia), intanto rieletto nel 2001, e chi voleva tenerlo al governo nonostante la sua prestazione non fosse all’altezza del suo primo mandato.
Dopo la destituzione forzosa di Aristide, i più recenti eventi politici sono da ricondursi a due grandi disastri ambientali: Il terremoto magnitudo 7.0 del 2010 e l’uragano Matthew nel 2016, nonché alla cattiva gestione degli aiuti internazionali, i quali hanno riempito le tasche delle ONG piuttosto che circolare nell’economia locale. Ultimo aspetto storico da considerare è la controversia legata agli interventi dei caschi blu, mal visti dai locali per svariati motivi tra cui una condotta a volte criminosa (crimini a sfondo sessuale) e atteggiamenti negligenti che avrebbero contribuito all’epidemia di colera tutt’oggi dilagante nel paese.
la prospettiva delle gang

Tornando ora a 5 mesi fa non è difficile vedere come l’alta coordinazione delle gang sia da attribuirsi al passato militare di alcuni membri. Il fine di questi gruppi armati, a detta delle loro dichiarazioni di natura politica, era in primis quello di destituire il primo ministro ad interim, il cui mandato è iniziato nel 2021 con l’assassinio del suo predecessore Moise. L’attacco di questa primavera è arrivato, secondo le gang, in conseguenza diretta delle promesse disattese di Henry circa le sue dimissioni, ciò non è avvenuto fin tanto che non è stato de facto obbligato.
sotto una nuova gestione
Il 28/05 Garry Conille è stato scelto per guidare gli sforzi del governo di transizione e stabilizzare la situazione quanto basta per poter tenere delle vere elezioni, le prime dal 2016. Conille è un personaggio conosciuto dalla comunità internazionale, prima della nomina era direttore regionale dell’UNICEF nel settore caraibico e latino-americano, inoltre, circa dieci anni fa, è già stato per un breve periodo primo ministro ad interim. Conille ha preso l’incarico seriamente ma con una certa vena di ottimismo, dichiarando che ristabilire l’ordine è possibile e che “alla fine, sono solo 12 mila criminali che tengono in ostaggio 12 milioni di persone”. Il principale strumento del governo di transizione è, nuovamente, un aiuto estero, ma stavolta la missione internazionale è diversa, dichiara Conille, tenendo a mente la cattiva condotta dei caschi blu in passato. Stavolta è diverso in primis perché la missione è stata ben definita, ossia aiutare la polizia locale per poter tenere delle elezioni nel febbraio 2026, e poi perché nonostante gli stati uniti siano attualmente il primo partner economico di questa operazione (avendo offerto inizialmente 309 milioni di dollari in fondi, armamenti e veicoli), sul posto si recheranno principalmente forze di polizia Kenyote, circa 1000 agenti, e nel corso dell’anno dovrebbero arrivare altri uomini dalle Bahamas, Jamaica e altri paesi. Tra il 25 giugno e il 17 luglio, buona parte del contingente Kenyota è sbarcato nel paese e ha iniziato a lavorare sotto la guida del comandante Otunge.
La situazione attuale
In parte grazie alla missione della nazioni unite e in parte grazie agli sforzi della polizia locale, la situazione potrebbe in futuro volgere a favore del governo, considerando però che “Sono stati fatti dei passi avanti”, Affermava il sottosegretario Nichols questo mercoledì, un giorno prima dell’arrivo ad Haiti del segretario di stato americano Blinken. Tra i successi si può annoverare la ripresa dei voli da parte della compagnia aerea Sunrise Airways dall’aeroporto internazionale Louverture, dopo poco più di sole due settimane dal 29 febbraio. Allo stesso modo però, qualsiasi tendenza positiva potrebbe invertirsi rapidamente se la situazione dovesse ritornare sulle spalle della polizia locale, considerando che prima dell’arrivo della missione Onu l’80% di Port-au-Prince era sotto il controllo dei gruppi armati. Blinken teme che la situazione possa peggiorare, da qui l’enfasi del segretario circa il rinnovamento della MSS ad ottobre, ha anche dichiarato che la missione dovrà essere più “affidabile e sostenibile”, riferendosi alla possibilità di un intervento ONU più convenzionale.
Un futuro incerto

Eppure, anche se il supporto della missione internazionale risultasse così decisivo (cosa ancora piuttosto incerta), la fine della crisi di sicurezza non corrisponderebbe alla fine dei problemi di haiti: epidemie di colera, 58.5% della popolazione sotto la soglia di povertà , infrastrutture non ancora del tutto risanate dai giorni del terremoto e in generale condizioni socio-economiche sfavorevoli. Molte ragioni spingono gli haitiani a lasciare il proprio paese da decenni, e questa crisi non ha fatto altro che peggiorare la situazione, producendo più di 15000 sfollati già dall’inizio. L’amministrazione biden ha fino ad ora provato a contenere la crisi migratoria, dal gennaio dell’anno scorso è infatti in vigore un programma dell’USCIS che concede l’ingresso negli USA a 30000 persone al mese, e fino ad agosto il numero di migranti regolari è salito a circa 138000. Quello dell’immigrazione irregolare è un problema per gli stati uniti, e a dimostrazione di ciò basti pensare che una delle ragioni per cui l’America è intervenuta per riportare Aristide al governo nel ’94 fu proprio per arginare questo fenomeno.
La verità è che il futuro della popolazione haitiana è più incerto di quello della sua sicurezza, affidata per ora agli aiuti esteri, ciò significa che due sono i possibili scenari per il futuro: una crescita del flusso migratorio, simile a quella negli anni ’90, o un intervento risolutivo che investa nelle attività locali, puntando a risollevare il mercato del lavoro piuttosto che rispondere a necessità più immediate. Questo dilemma è ulteriormente complicato dal grande punto di domanda che saranno le vicinissime elezioni americane, infatti, è mera speculazione pensare che una possibile amministrazione Harris continuerebbe ad elaborare soluzioni di accoglienza mentre una possibile amministrazione Trump spingerebbe verso un approccio di risoluzione in loco. Come europei, osservare lo sviluppo della situazione non è solo materia di interesse, bensì potremmo imparare qualcosa da questa crisi e vedere quale dei due approcci funziona meglio o come le autorità potrebbero perseguire entrambi.
Accoglienza e accordi internazionali, come agire?
Nonostante i numeri in campo siano diversi, non dobbiamo dimenticare che l’immigrazione clandestina, soprattutto in paesi come l’Italia (solo quest’anno sono sbarcati più di 25345 profughi secondo l’ansa, mentre sono circa 86400 in tutta Europa secondo l’UNICEF), continua ad essere un problema di natura tanto economica quanto umanitaria: un buon numero di migranti fugge non solo da situazioni di pericolo ma anche di povertà , esattamente come oggigiorno fanno gli haitiani, e come continueranno a fare in futuro. Parlando di interventi sul posto è invece proprio l’Italia che potrebbe dare un esempio in questo caso, uno negativo però. Stiamo parlando del piano Mattei, un imponente progetto che per ora coinvolge 9 paesi africani e dovrebbe allo stesso tempo beneficiare lo scambio di risorse naturali tra l’Italia e i paesi coinvolti, così come munire l’economia di questi ultimi di ulteriore liquidità e posti di lavoro.
In teoria, interventi come il piano Mattei potrebbero essere intrapresi congiuntamente, in futuro, da Haiti e un partner come gli USA. Ovviamente al centro di un accordo paritario con Haiti non ci potrebbe essere il petrolio ma presumibilmente la produzione agricola, ciò non solo potrebbe riportare il paese in carreggiata ma anche rimuovere dei veri e propri “monumenti allo sfruttamento estero” come il complesso industriale di Caracol, la cui costruzione dopo il terremoto prese il posto di fattorie e terreni coltivati. Eppure, prendere come esempio il piano Mattei in sé non sarebbe una buona idea, perché per quanto ambizioso e a detta di Meloni “concreto e reale”, manca di quella che è la componente fondamentale per questo tipo di accordi: una partnership alla pari tra le parti coinvolte, così come ha dichiarato il presidente dell’unione africana Moussa Faki lamentando al governo italiano che avrebbe dovuto essere incluso nei processi decisionali fin dall’ideazione. Oltre a ciò, il piano è criticabile anche sotto altri aspetti, ad esempio nella scelta dei partecipanti, in quanto non sono stati inclusi gli stati da cui provengono di fatto più migranti, come quelli della regione del Sahel.
In ultima analisi, vale la pena tenere d’occhio gli sviluppi della situazione haitiana, perchĂ© in seguito alle operazioni di sicurezza, gli stati adiacenti, e in larga parte un governo statunitense ancora da formare, dovranno trovare delle soluzioni innovative non solo per poter accogliere un numero di migranti consistente, ma anche per invertire una tendenza allo sfruttamento e all’inconcludenza, dunque investire in un paese che nei fatti non trova pace da piĂą di duecento anni.